Massimo Storchi
Quando nel 1994 venne alla luce, dopo un silenzio di oltre tre decenni, quello che gli storici hanno definito “l’armadio della vergogna”, in cui erano stati occultati 695 fascicoli relativi a crimini di massa compiuti dalle truppe naziste durante gli anni dell’occupazione, l’attenzione per il complesso di quelle tragedie tornò alla ribalta, ricongiungendo così il contesto italiano a quanto già da tempo in Germania era al centro dell’attenzione da parte degli storici, delle autorità giudiziarie e dei mass media.
I due processi a Priebke per la strage delle Fosse Ardeatine (1996-97) e la riproposizione di interventi di ricerca e di riflessione storiografica (in particolare i Convegni di Civitella e di Bologna) hanno “riportato alla luce” il tema.
Oltre che alle Procure militari competenti per il territorio (nella persistente debolezza di organici e apparati ) la vicenda è approdata anche a Montecitorio per i profondi risvolti politici legati alla decisione presa, all’epoca, dal governo Segni (Taviani ministro della Difesa e Martino degli Esteri) di rinunciare a perseguire i responsabili delle stragi in ossequio alla “ragion di stato”, che suggeriva di evitare ogni azione che potesse, in un contesto di guerra fredda, indebolire l’alleato tedesco ponendo sul banco degli accusati l’esercito in fase di ricostituzione e di inserimento nello schieramento atlantico.
Così, operando oltretutto in dispregio delle norme di legge, si decise di archiviare tutto quanto faceva riferimento alle oltre 15.000 vittime, tutte civili, elencate nei dossier che vennero rinchiusi in quell’armadio che sarebbe riemerso solo tre decenni più tardi. Si decise di non utilizzare la mole di documenti istruttori di grande valore e precisione, prodotti dagli angloamericani e consegnati da questi, per legittima competenza alle autorità italiane alla vigilia degli anni Cinquanta. Così ogni possibile indagine su Cefalonia, come su S. Anna di Stazzema e su Bettola divenne una eventualità impossibile.
Le stragi, anno dopo anno, rimanevano nella memoria delle celebrazioni e dei sopravissuti, assumendo sempre di più la sostanza di eventi assoluti, dissolti da ogni legame con un contesto bellico. Eventi tragici che avevano colpito le singole comunità ma che proprio per il fatto di non poter far riferimento a responsabilità precise, a “colpevoli” individuati o segnalati, tendevano a trasformarsi, con la pesante declinazione del tempo ormai trascorso, in eventi fuori dal tempo e sempre più difficilmente trasmissibili nella memoria collettiva, quasi relegati al rango di sventurati eventi naturali. E se questa memoria subiva vari attacchi e rimozioni tanto più pesante era il passaggio del tempo su tutte quelle stragi “ignorate” che non erano state in grado di emergere con sufficiente spazio di celebrazione (si pensi alle 1586 vittime in Campania tra settembre e ottobre 1943).
Il rinnovato interesse della ricerca storica si è saldato negli ultimi anni con la sensibilità delle comunità a recuperare la propria identità riaprendo il versante della ricerca storica e dell’indagine giudiziaria. Al di là delle vuote dichiarazioni di “pacificazione”, si è andata formando una inedita unità di intenti fra storici e magistrati che forse potrà raggiungere qualche risultato.
I documenti inediti che vengono pubblicati fanno riferimento all’inchiesta svolta dall’apposito reparto dell’esercito inglese nell’estate 1946 e provengono dal Pubblic record Office di Londra e dall’archivio Militare tedesco di Ludwigsburg e sono frutto di una ricerca compiuta da Istoreco volta ad acquisire materiali svolta nel 2000.
In realtà l’attenzione alle stragi compiute nel reggiano da nazisti e fascisti era rimasta viva nelle attività dell’Istituto, ricordiamo le conferenze di Lutz Klinkhammer a Reggio Emilia e Castelnovo Monti nel 1995 e il saggio di Marianella Casali dedicato proprio alla memoria della strage di Bettola. Certamente però i documenti inediti che presentiamo rappresentano per più motivi elementi di novità.
In primo luogo per quanto esprimono in termini di occasione perduta: utilizzati nei tempi dovuti questi interrogatori potevano consentire, alle competenti autorità di proseguire in ricerche potenzialmente fruttuose nella identificazione dei responsabili della strage, per la prima volta indicati con sufficiente precisione. In altri termini era possibile giungere alla individuazione dei responsabili e all’avvio dei legittimi procedimenti giudiziari per la loro punizione in tempi utili. Operazione questa che si è voluta impedire, negando la giustizia alle vittime e impedendo l’affermazione della verità per almeno un quarantennio.
Ma una lettura attenta dei documenti che vengono pubblicati consente anche alcune ulteriori considerazioni sulla tragedia avvenuta nella notte di S. Giovanni 1944 a La Bettola. Innanzitutto si conferma una delle evidenze che la riflessione storiografica in sede europea ha raggiunto circa il completo coinvolgimento dell’intera struttura dell’esercito tedesco nella politica di strage e di guerra ai civili. L’unità militare responsabile della strage della Bettola non apparteneva alle cosiddette “unità di élite”, come era stato nel caso di Cervarolo (con i militari della “Hermann Goering”), ma apparteneva alla Feldgendarmerie, la polizia militare della Wehrmacht. Quindi non un’unità particolarmente “specializzata” ma una unità di occupazione, guidata da ufficiali non più giovanissimi e in semplice transito a Casina, se, come varie testimonianze confermano, la presenza nel piccolo centro montano si esaurisce nel volgere di due mesi, prima di un trasferimento verso il nord, probabilmente in zona Veneto. Ciò nonostante, nella notte di S. Giovanni, questa unità militare applica con brutale efficienza e ferocia la rappresaglia più spietata nei confronti di civili innocenti. Il modus operandi (l’arrivo nel cuore della notte, gli ostaggi divisi in due gruppi per facilitarne la eliminazione, lo stupro di alcune donne, il saccheggio dei beni delle vittime, la uccisione e la distruzione dei cadaveri e dei luoghi con l’incendio) rivela una precisa attitudine, se non esplicita esperienza ad azioni di rappresaglia, forse inaspettata da una unità di polizia militare.
E se è pur vero che l’inesperienza e la incapacità rivelata dal gruppo partigiano nello svolgere l’azione di attacco all’obiettivo destinato (il ponte sulla SS63) rimane il motivo scatenante la rappresaglia, il completo annientamento di trentadue innocenti costituisce un elemento di violenza quasi esorbitante da un contesto che fino a quel momento non aveva presentato elementi di eccessiva pericolosità per l’occupante. La posizione strategica della Bettola, la uccisione di militari tedeschi, la fase di profonda crisi dello schieramento militare nazifascista (non dimentichiamo che in quelle settimane la montagna rimane sguarnita di fronte all’offensiva partigiana che costringe i fascisti a ritirare i propri presidi fino alla zona della pedemontana), sono tutti questi elementi che spiegano solo in parte tanta violenza come quella che si rivela a La Bettola.
La mancanza di ulteriori indagini, rese impossibili dalla scelta dei governi di centro destra degli anni Sessanta, ci ha privato anche della possibilità di verificare con i protagonisti le ragioni di quanto accaduto. Di confrontarci con le loro personalità e con le loro storie individuali.
Perché La Bettola (come emerge proprio dal verbale di inchiesta alleato) è una strage “nascosta” in duplice senso? Per la mancata giustizia resa alle vittime ma anche per le sue modalità di svolgimento. Il coprifuoco, la totale eliminazione di possibili testimoni, la breve permanenza dell’unità tedesca responsabile sui luoghi, sono stati tutti elementi che hanno reso più evanescente la ricostruzione dei fatti di quella notte.
Per questo è di grande interesse la testimonianza del sopravissuto gestore della locanda che, se si salda con le altre raccolte dagli alleati, presenta alcuni elementi di grande rilevanza. Il primo è certamente la imprevedibilità della tragedia: dopo la uccisione dei tre abitanti della casa più prossima al teatro dell’azione partigiana, quando giunge l’ordine di rialzarsi da terra dove gli ordini dei soldati avevano costretto a lungo i trentadue occupanti della locanda, si diffonde quasi un senso di sollievo, tanto da spingere il testimone a pensare di ringraziare i militari per lo scampato pericolo, convinto che il peggio sia ormai passato. E possiamo immaginare la confusione del momento, nella notte, dopo gli spari nella vicina casa della famiglia Prati. Poi la tragedia invece si concretizza rapidamente, i due gruppi di ostaggi divisi, le donne violentate, l’uccisione di massa che diventa reale, l’incendio che divampa e distrugge.
E nel momento dell’esecuzione ecco emergere, nelle parole del sopravissuto, la nota più agghiacciante, la voce che ordina il fuoco non lo fa in tedesco, ma sono parole in italiano quelle che comandano la raffica mortale.
In altre testimonianze raccolte la presenza di fascisti di Vezzano era già emersa, ma in forma sfumata e incerta, forse rimossa. La testimonianza di Beneventi ce le riporta con chiarezza. Voci italiane ordinano il fuoco, fascisti repubblicani sono presenti e collaborano, come in altre stragi (a Cervarolo come a Legoreccio) con i tedeschi nella uccisione di civili inermi. Anche su questo la mancanza di indagini serie e approfondite ha consentito l’impunità dei responsabili. Non si sono cercati gli assassini in Germania ma neppure a Vezzano e nei dintorni, ciò rimane comunque a creare un deficit di giustizia e di verità che non possiamo tacere.