(tratta da Ermanno Gorrieri La Repubblica di Montefiorino, Il Mulino, Bologna 1966, p. 344)

(tratta da Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza volume III H-M, La Pietra, Milano 1976, pp. 799-803

 

(tratta da Resistenza Reggiana. Documenti fotografici, Anpi Reggio Emilia 1992 p.91)

Montefiorino
(Tratto da Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, Volume III H-M, La Pietra, Milano 1976)

Comune modenese di 3.800 abitanti (300 nel capoluogo). Comprendente fino al 1951 anche la frazione di Palagano, ora comune autonomo, durante la Guerra di liberazione fu al centro di una “repubblica partigiana” rimasta in vita dal 18 giugno al 2 agosto 1944. La zona controllata dai partigiani e amministrata da giunte comunali democraticamente elette comprendeva, oltre a Montefiorino, i comuni di Prignano, Polinago e Frassinoro in provincia di Modena, nonché Toano, Villa Minozzo e Ligonchio nel Reggiano, con una popolazione complessiva di 50.000 abitanti.

Tradizioni di lotta
Non fu un caso se i comuni della montagna modenese-reggiana diedero vita alla prima “repubblica partigiana” con circa tre mesi di anticipo rispetto ad analoghe esperienze sorte in altre regioni dell’Italia settentrionale, che anche da Montefiorino trassero insegnamenti e stimoli. Le tradizioni popolari riferiscono che da secoli un fiero spirito di lotta per la libertà e per l’autonomia aveva già portato, in quelle terre, a ripetute esperienze di autogoverno e di democrazia “diretta”. Ricordano le leggende locali tramandate di bocca in bocca la sera a veglia nelle stalle e confermate dagli storici, che il 25 novembre del 1429 gli abitanti di Vitriola, Montestefano e altre “ville”, oppressi e angariati, avevano deciso di abolire il feudalesimo e, sollevatisi in armi, in un impeto di furore popolare avevano dato l’assalto alla Rocca di Montefiorino cacciandone per sempre i feudatari Montecuccoli. Tali racconti avevano lasciato un segno profondo negli abitanti della montagna modenese, sicché, in varie occasioni, momenti di “ribellione” avevano contrassegnato nei secoli i tentativi di governo autoritario.
Se le contrapposizioni e le divisioni che avevano favorito nel 1922 l’avvento del fascismo bloccarono per lunghi anni la rinascita di una unità di intenti e di lotta, le particolari condizioni economico-sociali e la tenace azione propagandistica di alcuni dirigenti antifascisti locali (come Teofilo Fontana, poi sindaco di Montefiorino libera, e Alfredo Beneventi), fecero si che sin dall’8.9.1943 l’intera popolazione delle frazioni di Montefiorino raccogliesse e nascondesse le armi abbandonate nella zona di Monchio (v.) dai 942 allievi ufficiali e dai 49 ufficiali dell’Accademia militare di Modena.
Parallelamente all’azione dei gruppi facenti capo in forma più o meno diretta al Partito comunista, alcuni giovani parroci, più vicini e sensibili alle esigenze di quelle dimenticate popolazioni montanare, svolsero attiva propaganda antibellica contro l’arruolamento nella repubblica di Salò (come don Nino Monari, il parroco di Massa di Toano che guidò una delle prime azioni armate nel luogo, e don Sante Bartolai che sarà poi deportato a Mauthausen).
Di fondamentale valore fu anche l’opera di don Elio Monari (v.), insegnante nel Seminario di Modena, che si fece coraggioso organizzatore di operazioni di salvataggio di prigionieri alleati: catturato e tradotto a Firenze, a Villa Triste, vi sarà poi ucciso dai fascisti.

Nascita delle formazioni partigiane
Nel novembre 1943 alcuni antifascisti, in gran parte comunisti, mossero da Sassuolo per costruire un primo nucleo di resistenza armata a nord di Montefiorino, giustamente fidando nell’appoggio della popolazione locale. Il collegamento di queste prime formazioni con Mario Ricci (Armando) e Osvaldo Poppi (Davide), inviati dalla Federazione comunista di Modena e dal Comitato di liberazione nazionale provinciale, permise di trasformare la prima rivolta spontanea in una lotta politicamente organizzata sotto l’insegna del C.L.N.. Ciò permise di realizzare, sia in campo politico che militare, il superamento di barriere ideologiche che avrebbero limitato l’adesione delle masse cattoliche qualora l’azione partigiana fosse stata condotta, come lo era all’inizio, dal solo Partito comunista. L’ideologia dei C.L.N., introdotta dagli attivisti del Partito comunista e poi fatta propria dagli aderenti agli altri partiti (D.C., P.d’A., P.S.I.) e movimenti antifascisti, peraltro di gran lunga meno numerosi e organizzati, seppe trasformare i primi ribelli della montagna in partigiani coscienti e in preparati propugnatori di una nuova e diversa società. Se le azioni militari condotte dagli uomini di Barbolini e dai gruppi locali di Nello, Lupo, Fontana, Balìn, dalla formazione dei giovani cattolici di Fontanaluccia guidati da don Nino Monari e dal gruppo del monarchico Marcello e del capitano Mario Nardi (a parte la presenza vigile, ma inattiva, di una formazione di 70 giovani perfettamente armati a Monchio); se tutto ciò servì a suscitare le prime forme di collaborazione da parte della popolazione e a convincere gran parte dei giovani a non presentarsi alle chiamate fasciste di Modena e Reggio Emilia, fu solo nel marzo 1944 che la lotta acquistò un carattere solidamente organizzato. Ciò avvenne quando Armando e Davide, in un capannone di Palagano, posero le basi per un collegamento organico delle formazioni e iniziarono quell’opera di convincimento che avrebbe portato, nel giugno, alla creazione di un Comando unico modenese-reggiano. Da quello stesso momento l’azione militare, trovato il giusto e completo collegamento con quella politica, prese effettiva consistenza e incidenza e cominciò a creare le premesse per la nascita della “zona libera”.
Contemporaneamente, nel Frignano, Armando era andato organizzando altre forze ribelli che entrarono in azione nella primavera 1944. La strage di Monchio fece poi cadere le ultime illusioni e indusse anche i più incerti a scegliere senza esitazioni la via della lotta armata.

La guerriglia
L’azione unitaria intrapresa dopo la riunione del capannone di Palagano diede come frutti immediati due importanti azioni, altrimenti impensabili: la distruzione del presidio di Cerredolo (v.) il 4.5.1944 e la occupazione di Fanano (v.), dove, alla capanna Tassoni, un reparto al comando di Fulmine combatté in maniera coraggiosa ed eroica.
Queste azioni, appoggiate da un primo “lancio” alleato, e altre di minore risonanza furono seguite da rapidi sganciamenti e spostamenti delle formazioni partigiane dalla valle del Secchia a quella del Panaro e viceversa: primo esempio di una corretta applicazione dei principi della guerriglia. Intensi e rapidi, gli attacchi sgominarono in breve l’intero sistema di vigilanza fascista dell’Appennino modenese-reggiano tanto che il 15 giugno il Comando generale della Guardia nazionale repubblicana si vedrà costretto a ordinare il ritiro di tutti i presidi che erano ormai rimasti praticamente isolati e impossibilitati a svolgere una qualsiasi azione. Fu così che, mentre nella “Bassa” iniziavano le intense azioni politico-militari che avrebbero portato alla mobilitazione dell’intera popolazione agricola in appoggio alla lotta antifascista su avanzate istanze politiche, amministrative e sindacali, anche la montagna modenese concepì un piano di mobilitazione popolare da realizzarsi attraverso la costituzione di un territorio “libero”. Questa iniziativa, oltre a consentire l’intensificarsi delle azioni di guerriglia contro il traffico tedesco avrebbe reso partecipe l’intera popolazione montanara ai nuovi ideali che, attraverso la lotta di liberazione i nuovi organi di direzione popolare, i C.L.N., intendevano realizzare nell’Italia liberata.

Conquista della Rocca
Ai primi di giugno del 1944 cominciò il vero e proprio assedio a Montefiorino, nella cui medioevale Rocca aveva sede il principale presidio fascista della montagna a sud di Modena, forte di circa 100 uomini. La Brigata comandata da Barbolini si assunse il compito di controllare la strada di Quara e Toano (Formazione Bernabei) Frassinoro (Formazione di Fontanaluccia) e la zona sud-ovest del capoluogo. Ultimio e Balìn si schierarono lungo il torrente Dragone, mentre Narciso chiuse l’accerchiamento a est e a sud-est. Mentre squadre partigiane presidiavano la zona compiendo continue azioni di disturbo, furono interrotti la corrente elettrica e l’acquedotto. Il 18 giugno, la Rocca cadde in mano partigiana.

“Di fronte alla mancata distruzione dei presidi di Toano e Villa Minozzo nel Reggiano e di Frassinoro nel Modenese – scriverà Davide il 3.7.1944 alla Delegazione regionale delle Brigate Garibaldi – fui preoccupato di vedermi sfuggire anche le armi di Montefiorino e Piandelagotti. Decisi perciò l’assalto di Montefiorino per la distruzione di quel presidio. […] Ci pervenne nella notte la notizia che il presidio avrebbe tentato di sfuggire al blocco, per cui con il distaccamento di Balìn mi posi in postazione lungo il greto del fiume Dragone che lambisce il fianco del monte, là dove presumibilmente doveva passare il nemico.
Verso la una o le due del mattino, in mezzo alla nebbia e sotto l’acqua, avvenne lo scontro tra le nostre piccole postazioni e il nemico. Furono sufficienti pochi colpi di mitra e moschetto da parte di due dei nostri per determinare lo sbandamento di oltre 65 uomini”. Diversi militi furono poi catturati al mattino seguente.

La “repubblica partigiana”
I compiti presentatisi al Comando modenese-reggiano unificato e unitario che riassumeva in sé la presenza di tutte le correnti politiche e riuscì a porsi come guida di tutte le formazioni presenti sull’Appennino in quelle due province, furono enormi e completamente nuovi. Il Comando non volle limitare la propria attività alla pura e semplice occupazione (o liberazione) militare, cosa che si sarebbe prestata a giudizi malevoli, quasi si trattasse di bande anarcoidi o di avventurieri. Contro l’opposizione di altre correnti politiche i dirigenti comunisti (Armando, Davide, Bellelli, Benedetti, Ghini) riuscirono a far prevalere l’orientamento di costituire organi amministrativi democratici, decentrati e soprattutto, direttamente eletti dal popolo.

Vent’anni più tardi il deputato democristiano Ermanno Gorrieri (Claudio), già comandante della formazione cattolica a Montefiorino, confermerà e sottolineerà l’importanza di questa scelta: “Non si trattò soltanto di una zona liberata, in quanto soggetta all’occupazione delle forze partigiane, ma di un’anticipazione del ritorno a una vita democratica, attraverso le elezioni delle amministrazioni comunali democratiche. […] La decisione di dar vita ad amministrazioni elettive fu una conseguenza della consapevolezza politica e della carica innovatrice del movimento partigiano”.

Il 25.6.1944, sette giorni dopo la liberazione di Montefiorino, l’assemblea dei capifamiglia elesse infatti una Giunta e, il 26, questa designò Teofilo Fontana e Amedeo Ballantini rispettivamente sindaco e prosindaco del libero Comune. Altrettanto si fece nelle altre località: a Polinago fu eletto Domenico Antonio Roncaccioli, a Frassinoro il ragionier Pietro Guidi, a Prignano il contadino Arturo Pellesi. Invece, dei tre comuni del Reggiano, soltanto Toano ebbe una Giunta eletta a scrutinio segreto: a Villa Minozzo e a Ligonchio le elezioni furono impedite dall’attacco nazifascista del 29 luglio.
L’attività della Giunta di Montefiorino si incentrò soprattutto nello sforzo di far partecipare la maggioranza della popolazione alle scelte e alle decisioni riguardanti i problemi del comune. La preventiva consultazione delle categorie interessate, divenuta norma, assunse un valore tutt’altro che formale: i cittadini della “repubblica” esperimentarono un modo completamente nuovo di amministrare e furono i consapevoli protagonisti, con poteri decisionali, della vita del loro comune. Esperienza breve, ma che avrebbe lasciato frutti di somma importanza, sia nel territorio della “repubblica” che nelle zone circostanti.
Tra i più significativi provvedimenti presi dalla Giunta, si ricordano quelli che toccavano il campo degli approvvigionamenti e dell’alimentazione (denuncia e conferimento del bestiame, controllo della trebbiatura, distribuzione del grano, salvaguardia del patrimonio zootecnico con un effettivo controllo dei prelevamenti), la produzione (riapertura dei caseifici, messa in opera di trebbiatrici, reperimento di carburante per l’agricoltura), le imposte e i tributi (riesame IGE, revisione delle esenzioni tributarie, imposte di consumo), i prezzi (fissati attraverso numerose assemblee, furono adeguati alle possibilità economiche della zona e si lottò, con successo, per la eliminazione del “mercato nero”), i sussidi ai bisognosi, la funzionalità degli uffici e dei pubblici servizi.
L’attiva e sentita partecipazione alla vita pubblica, l’appartenenza della maggioranza dei giovani montanari alle Brigate garibaldine, la presenza dei partigiani in tutte le case e casolari a la conseguente diffusione di idee “nuove”, ma soprattutto !e rivendicazioni sociali e politiche apertamente propugnate da alcuni dei partiti che dirigevano la lotta, contribuirono a mutare profondamente il modo di pensare delle popolazioni montanare.
Dal punto di vista militare, la creazione della “zona libera” ebbe un triplice effetto, così riassumibile:

1. Rese ai tedeschi alquanto precarie le possibilità di comunicazione e di rifornimento lungo le tre principali arterie che collegavano le loro retrovie con la Linea Gotica (strade statali dei Giardini, delle Radici e Porrettana).
2. Permise, con la creazione del Comando unico, il collegamento fra tutte le formazioni esistenti in montagna e la determinazione di comuni obiettivi di lotta, contribuendo a meglio sviluppare le operazioni già fissate su precisi obiettivi.
3. Polarizzò l’attenzione dei giovani soggetti alle chiamate di leva, tanto che circa 5.000 “reclute” affluirono al cosiddetto “Distretto partigiano di Montefiorino”.

Il Comando era d’altronde ben conscio della impossibilità di mantenere libero il territorio per lungo tempo, soprattutto in considerazione del pesante disturbo che la “repubblica” creava al traffico militare tedesco verso il fronte, in un momento particolarmente delicato.
Né era intenzione dei garibaldini abbandonare la tattica così fruttuosa della guerriglia per passare a una guerra di posizione, in contrasto con le più elementari concezioni di lotta partigiana e anche insostenibile, data la modesta qualità e la limitata quantità di armi in possesso delle formazioni.
Fu quindi rapidamente predisposto un piano di resistenza elastica al primo urto, con pronto sganciamento su posizioni predeterminate che avrebbero permesso l’immediata ripresa della guerriglia contro le stesse vie di comunicazione che i tedeschi tentavano di liberare eliminando la “repubblica”. I partigiani furono inquadrati in 7 Divisioni (con organici corrispondenti a Brigate): la I al comando di Barbolini (stanziata a Toano, Cerredolo, Prignano); la II con Mario il Modenese (Piandelagotti, Sant’Anna Pelago); la III con Angelo (da Passo Centocroci a Monte Mocogno); la IV con Marcello (Gombola, Pompeano); la V di riserva (Battaglione Sovietico, Brigata “Fulmine”, Brigata “Anderlini”, Formazione “Claudio”, Brigata “Stella Rossa”): la VI e la VII da Ligonchio a Carpineti. Appositi distaccamenti furono poi collocati a difesa dell’ospedale di Fontanaluccia (v.) che, organizzato dal Comando generale, assisteva anche la popolazione civile che per la prima volta godeva così di un servizio sanitario pressoché completo.

La battaglia
Dopo due tentativi di attacco da sud all’inizio del luglio 1944, i tedeschi cercarono di convincere il Comando partigiano (Armando, Eros, Capitano Miro , Davide, Capitano Mario Nardi e Libero Villa) a concordare zone di reciproca influenza, garantendo il libero transito sulle rotabili.
Il rifiuto partigiano di scendere a patti causò l’attacco tedesco in forze. Questo ebbe inizio con scontri di pattuglie il 29 luglio e, dal 30, fu portato decisamente su tre direttrici principali: da nord, lungo il fiume Secchia e la strada delle Radici: da ovest, contro Carpineti e Villa Minozzo; da sud, contro Sant’Anna Pelago, Ligonchio e Piandelagotti.
Malgrado le difficoltà di coordinamento dell’azione di difesa dovute alla mancanza di collegamenti veloci (la Missione alleata aveva rifiutato la fornitura di telefoni da campo) e la evidente disparità di armamento (le formazioni partigiane disponevano di armi corte, con poche automatiche leggere e qualche mortaio privo dei congegni di puntamento; nonostante ripetute promesse, la Missione non aveva procurato aiuti militari), si ebbero esempi di straordinario eroismo, per esempio da parte del Battaglione Sovietico al Ponte Gatta. Superiore a ogni elogio fu anche il comportamento della popolazione che, per partecipare alla difesa, chiedeva armi, ma queste purtroppo non erano sufficienti ad armare neppure i garibaldini regolarmente inquadrati.
I tedeschi impegnarono nell’operazione due loro divisioni con appoggio di artiglieria e mortai, cui fu affidato il compito di snidare le postazioni partigiane, ma si trovarono di fronte uomini che, pur essendo in grandissima maggioranza al loro battesimo del fuoco, seppero condurre un’azione campale manovrata in maniera complessivamente valida, con rapidità di decisione autonoma e intelligenza di movimenti. I combattimenti durarono più di 3 giorni e si conclusero con uno sganciamento dei partigiani a piccoli gruppi verso il monte Penna, dove le formazioni si ricostituirono, constatando di non aver subito eccessive perdite per lo sbandamento. Durante lo sganciamento, la Brigata “Stella Rossa” e il Battaglione Sovietico furono sorpresi dal nemico al Passo delle Forbici e si dovette alla pronta iniziativa dei sovietici se, nell’imboscata, i partigiani perdettero soltanto 8 uomini.

Le conseguenze
Per quanto riguarda le perdite complessive, mancano informazioni attendibili: in talune relazioni si è parlato di 2.080 caduti fra i tedeschi e 250 fra i partigiani, cifre senz’altro eccessive. Se si può accettare in linea di massima che i tedeschi abbiano avuto molti uomini fuori combattimento (tra uccisi, feriti e dispersi) per il fatto che i partigiani si difendevano da ben munite posizioni naturali, e data anche la tattica suicida usata dai battaglioni “mongoli” nel settore nord-ovest di gettarsi all’attacco su terreno scoperto, le perdite partigiane rilevate dagli elenchi ufficiali sono di 50 caduti in combattimento e precisamente:

Alfonso Nocetti, Giorgio Rusticelli, Belli, Lusvardi, Medici, Ottombrini, Leandro Ferrari, Guerrino Pugnaghi, Consalvo Ghini, Ferdinando Borellini, Sante Bartolai, Domenico Tognarelli, Bruno Debbia, Igidio Popoli, Carlo Fontanini, Mario Stefani, Oscar Gavioli, Pacifico Barbati, Dino Grandi, Ivo Carretti, Vittorio Cervelli, Achille Nalon, Egidio Balducchi, Oliviero Cassani, Gianfranco Bigarelli, Gino Volpogni, Andrea Roversi, Guido Scardoci, Luigi Lolli, Antonio Benassi, Angiolino Benassi, Mario Turrini, Walter Vecchi, Domenico Beneventi, Adamo Giacomelli, Alberto Corazzari, Ennio Cattinari, Massimo Lami, Grigori Konovalenko (sovietico), Francesco Albertini, Adelmo Cuoghi, Rubino Olivieri, Amedeo Roncaglia, Ruggero Bruni, Romeo Camelli, Sergio Lenzi, Primo Lenzotti, Olindo Lenzotti, Rolando Casali, Loris Ferrarini.

L’obiettivo tedesco di eliminare dalla zona la presenza partigiana non fu raggiunto: le formazioni rimasero compatte e anzi, suddivise in reparti più agili, raggiunsero nuove posizioni che, estendendosi al di là del territorio della “repubblica”, coprirono tutte le colline modenesi con intensificati attacchi contro le vie di comunicazione.
Due settimane dopo la battaglia di Montefiorino, la Divisione di Barbolini era di nuovo nella zona e riprendeva il contatto idealmente mai interrotto con la popolazione. Questa, nella sua grande maggioranza, aveva giudicato positivamente l’azione di sganciamento delle formazioni partigiane, ben comprendendo che il loro compito principale non era quello di difendere il territorio della “repubblica”, ma di assicurarsi la possibilità di continuare ulteriormente la lotta.
Questi contatti, sostanziati dai 40 giorni di amministrazione democratica, dalla creazione dell’ospedale di Fontanaluccia, dalla gestione democratica della giustizia attraverso il Tribunale partigiano (che fra l’altro aveva giudicato i responsabili dell’efferato eccidio di Monchio), dal controllo dell’intero movimento partigiano (dal quale erano state eliminate alcune frange, immancabili nei primi tempi, confinanti con l’avventurismo), portarono l’intera popolazione della “repubblica” a far propria la causa antifascista e democratica.
Il Comando generale delle Divisioni della montagna modenese rimase sempre nella zona di Montefiorino, anche quando la minoranza democristiana tentò di ridimensionare il movimento partigiano. La linea politica del P.C.l. aveva portato alla scelta della lotta antifascista come azione politica e militare di massa. Allorché, nelle fasi successive della guerriglia, dopo diversi duri combattimenti la Divisione comandata da Armando si trovò schierata a fianco delle Armate alleate sul fronte da Porretta Terme a San Marcello Pistoiese, qualcuno tentò di congedare parte delle forze garibaldine e di operare un netto distacco dalla popolazione per ridurre la resistenza armata a fenomeno puramente militare, isolato dalla base popolare. Ma furono le stesse forze cattoliche della montagna a far fallire questo tentativo, costringendo “Claudio” e “Lino” a ricomporre la primitiva linea di condotta, ormai collaudata e fatta propria da quanti avevano avuto modo di comprenderla e di valutarne il profondo significato rivoluzionario. Nei giorni dell’aprile 1945, forte di 4.803 partigiani, la Divisione Modena Montagna poté così portare il proprio valido contributo all’insurrezione nazionale, partecipando alle azioni per la liberazione della intera valle del Secchia e della pedemontana fino a Sassuolo.

Dopo la Liberazione il comune di Montefiorino è stato decorato di medaglia d’oro al valor militare, con decreto pubblicato il 15.5.1970 sulla Gazzetta Ufficiale, n. 120. La medaglia, appuntata sul gonfalone del comune il 19.10.1972 dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone, reca la seguente motivazione ufficiale:
“Vessillifero della Resistenza fra numerosi comuni appenninici, anticipava le libertà democratiche conquistando per primo a “Repubblica” partigiana una vasta zona montana, sul tergo e a insidia di importante settore difensivo della Linea Gotica.
Retto da valoroso Alto Comando partigiano e polo di attrazione di perseguitati e insofferenti di giogo straniero, in alterne vicende il territorio libero di Montefiorino costituiva base offensiva di agguerrite formazioni, a interdizione di importanti comunicazioni dello schieramento tedesco; più volte attaccato si difendeva con bravura e, in durissima impari lotta di sopravvivenza, opponeva alla morsa inesorabile di due imponenti rastrellamenti nazifascisti il valore e il sanguinoso sacrificio di migliaia di combattenti e di stremate popolazioni.
Dai reparti veterani della montagna sottrattisi all’annientamento, logori ma non domi e sempre risorgenti, la Repubblica di Montefiorino rigenerava, infine, le formazioni partigiane della riscossa, che ai passi appenninici e in nobile gara con le forze di pianura e con le martiri popolazioni, davano per la redenzione della Patria largo concorso di combattimento e di sacrificio agli eserciti di liberazione, generoso tributo di valore, di sangue e di sofferenza alla causa della libertà.
Appennino modenese, giugno 1944-aprile 1945″.